Perché il mondo streetwear è stato bersaglio di molte tra le proteste che hanno seguito l’omicidio di George Floyd? La miccia è esplosa lo scorso 25 maggio a Minneapolis, in Minnesota, quando l’agente di polizia Derek Chauvin ha arrestato e ucciso George Floyd, che era stato fermato con l’accusa di aver tentato di smerciare una banconota contraffatta. Un video ha ripreso l’intera scena: l’agente ammanetta e atterra Floyd, premendogli il ginocchio sul collo per quasi 9 minuti, nonostante questi continuasse a ripetere “I can’t breathe”, “non riesco a respirare”. Floyd non ce l’ha fatta: è morto per asfissia in un giorno qualunque, senza un perché, mentre era andato a comprare le sigarette dal tabaccaio.
La morte di Floyd è diventata il simbolo di un problema che persiste ancora oggi e sembra non avere fine: l’odio a sfondo razziale, l’ennesimo abuso di potere da parte della polizia contro gli afroamericani. Le proteste hanno infiammato e stanno ancora infiammando l’America, con commissariati di polizia incendiati, ma non solo: i saccheggi si sono estesi ai ristoranti per arrivare a colpire poi i negozi di streetwear, che sono stati oggetto di veri e propri atti vandalici, ma vediamo perché.
La cultura urban affonda le proprie radici nelle comunità afroamericane, e lo streetwear è uno stile nato all’inizio degli anni ‘80 ispirato dalla sneaker culture e dagli hipsters della zona sud est di New York; nel tempo si è affiancato e poi integrato nella cultura hip hop che negli stessi anni conquistava, con il rap, i dj, la break dance e i graffiti, i ghetti della east coast americana.
Durante gli ’80, alcune icone hip-hop come Cherelle e Andre vestivano tracksuits vivaci e colorate, capi in sheepskin, giacca militare bomber, scarpe Clarks, stivali Dr. Martens, e sneakers (di solito Adidas modello shelltoes con lacci oversize). Da allora di strada ne è stata fatta tanta ed oggi sicuramente lo streetwear ha perso moltissimi dei legami con la cultura e il modo di vivere all’interno dei ghetti americani, per diventare un fenomeno di lusso, riservato ad una elite molto ristretta. Oggi lo streetwear è diventato un gioco: con modelli di sneakers prodotti in serie limitata, attese interminabili per il giorno del drop, a beneficio di coloro che tirando l’alba davanti alle vetrine degli store chiusi, riescono ad aggiudicarsele a prezzo di listino, per tutti gli altri ci sono i siti di reselling dove si vendono a prezzi fino a 20 volte più alti. La rabbia dei manifestanti si è automaticamente rivolta verso coloro che hanno preso “un modo di essere, uno stile della cultura black”, per trasformarlo in un esclusivo prodotto per i ricchi bianchi americani, con i conti da migliaia di dollari, in grado di pagare anche 900 euro un paio di sneakers.
Certamente non ha giovato poi l’assenza di presa di posizione di Virgil Abloh, il fondatore di Off White ed enfant prodige del colosso luxury Louis Vuitton che dopo essere stato in silenzio, ha successivamente preso le difese dei negozi di streetwear devastati, prendendosela sui social con una comunità che si era “rivoltata contro” chi ha sempre sostenuto le sue stesse istanze. Un atteggiamento profondamente ipocrita a giudizio dei manifestanti, da parte di un uomo accusato di “usare gli slogan della cultura afroamericana” per vendere di più.
Altrettanto ipocrita è stata giudicata sui social la presa di posizione di Anne Wintour che si è rivolta, in una lettera aperta, ai democratici chiedendo giustizia per George Floyd, ma alla quale gli haters hanno ricordato le enormi difficoltà che ancora oggi modelle e modelli di colore hanno nel comparire sulle copertine di Vogue America.
Kanye West, in passato molto spesso criticato per le sue dichiarazioni palesemente pro Trump, ha invece istituito un importante fondo economico, destinato a Gianna, la figlia di George Floyd, per permetterle di continuare gli studi.