#OfCourseAHourse, IL NUOVO HASHTAG DI GUCCI

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Gucci non smette mai di sorprenderci, grazie specialmente alla capacità del Direttore Creativo Alessandro Michele di costruire immaginari surreali, eppure sempre credibili. Con il suo aiuto abbiamo imparato a trasportare la fantasia nelle nostre vite quotidiane, rendendola parte di noi e della nostra vita quotidiana, senza dover giustificare il fatto che ciò che vediamo, a volte, ha ben poco a che fare con la realtà. Un pò come la letteratura di Kafka. Dopo Harry Styles e i maialini, dopo gli alieni, dopo cani e gatti, ora è il momento del cavallo in casa Gucci.
Siamo in America, sulle strade di Los Angeles. Il mare, il richiami degli anni 70 ai tempi dei figli dei fiori e della libertà, trasudano da tutti i pori. Sono le sensazioni che emergono guardando la nuova campagna primavera estate 2020 del brand italiano Gucci. Un inno alla libertà.

Ritratti dal registra Yorgos Lathimos, i cavalli assumono il ruolo dei veri protagonisti per le strade della città in situazione surreale e romantiche. La trama è un rimano a The Lobster, un film distopico del registra in cui uomini e donne single che non riescono a trovare un nuovo compagno di vita si trasformano per sempre nel loro animale preferito.
Ancora una volta il designer Alessandro Michele sceglie di lasciare un messaggio ma nascosto. Sta al singolo spettatore coglierlo e farne una sua chiave di lettura. Una campagna pubblicitaria nella quale non vi è una spiegazione del perché il cavallo mangia, prende il sole o dorme con noi, il cavallo diventa così nostro pari, o forse amico, amante, o forse siamo i suoi proprietari. Non c’è una chiave di lettura, un focus, ma sei tu spettatore che decidi quale deve essere la tua chiave.


E poi, Alessandro Michele già dalla sfilata ss20 aveva paragonato il cavallo come simbolo di libertà, che sulla passerella aveva il compito di rompere ogni schema. Ci ricordiamo tutti la passerella velocizzata di settembre sulla quale sfilavano i modelli vestiti in abiti di tela bianca. Il designer lanciava un messaggio forte e chiaro: non siamo liberi, ma controllati da una società che spesso decide anche come vestirci. I modelli erano paragonati a noi acquirenti che sfiliamo in una divisa stabilita e uguale per tutti.

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